Nel 2019 Fragile Spazio - Teatro Senza Luogo  è nato come progetto pedagogico teatrale con l'obiettivo e il desiderio di portare laboratori teatrali in contesti di fragilità sociale.

volevo mettere a disposizione quello che avevo imparato a fare, non volevo tenermelo tutto per me questo teatro, volevo regalarne un pezzo a qualcun' altro.

Nel 2019  da volontaria ho tenuto il primo laboratorio in un villaggio all'est della Jamaica. Qui ne parlavo come "la gioia più rumorosa che abbia mai provato"

Nel 2022, sono tornata e ho collaborato con Gilrs Becoming un'associazione che si occupa di educazione con ragazze adolescenti ( offrendo loro occasioni in cui sperimentarsi e crescere più libere e consapevoli) la stessa associazione che questa estate ha deciso di credere in questo  Teatro senza Luogo, finanziando il mio viaggio per andare a donare un mese di teatro alle ragazze. 

La gioia ha fatto rumore, quel giorno, quando è arriva la notizia. 

E la gioia ha fatto molto rumore durante le lezioni, durante gli esercizi,  ma anche durante le nuotate nel mare più bello della terra, e ha fatto molto rumore quando, affaticate ma felici, abbiamo portato in scena una piccola performance.

Qui in pezzo di diario del 15 agosto 2024

Oggi si va in scena. Li è ferragosto qui è un normale giovedì. Ieri abbiamo fatto la prova generale, in pausa un copione è volato dalla finestra, l'abbiamo rincorso sulla collina, non si sa ancora bene chi farà la parte del coniglio in ritardo, dopo lunga contrattazione, ho detto "immaginatelo" hanno riso e poi lo hanno immaginato, immagino.

Non si sa bene chi si presenterà oggi, dovrò rimescolare le carte all'ultimo, lo so già. Tyeka, Tashina, Sashika, Lanik, Shanelka, Amaya, Cianshia sono i nomi più difficili per cui a volte inverto le sillabe, hanno i nomi fatti del suono delle onde sulla sabbia.

Chissà se i nomi vengono dai suoni che uno sente intorno?Abbiamo fatto i cori e gli stormi, amano il gioco dei numeri da 1 a 20, lo farebbero all'infinito. Durante le pause si arrapicano sull'albero di fronte per cogliere i ginep, dei fruttini rotondi dolcissimi.

Dal palcoscenico di vede il mare.

Me ne sono accorta quando sono salita su per far vedere a Tashina come sfogliare il libro, ho visto il mare, per un attimo il cuore mi si è ricoperto di ibischi rossi, ma ho fatto finta niente e ho detto " dai continuiamo".

Ho un airone blu che cammina nel giardino la mattina presto, la mattina l'odore delle mandorle nell'aria è più dolce e piú forte, ho un granchio nel lavandino della cucina e lucertole verdissime attaccate ai muri, ho i piedi rossi della vernice del pavimento della sala dove proviamo, ho un'amaca dove vado dondolare i pensieri, quando mi faccio domande troppo grandi. Ho una scrivania di fronte al mare, che mi ricorda di andare a nuotare prima di mettermi a pensare. Oggi il mare fa tanto rumore, quando è così sembra che bruci, è più simile al fuoco, mi verrebbe di spegnerlo, di abbassare la fiamma, per fortuna il mare non ha orecchie, non ascolta nessuno. Io vado a prepararmi, tra poche ore Alice arriva in Jamaica, le ragazze con i nomi di spuma sono pronte, e io sono ancora in costume.

Qui qualche foto della perfomance finale!

Qui una dedica alla Giamaica, agosto 2022

Dicembre 2023

𝗖𝗶 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝘀𝗲𝗿𝗮𝘁𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗲𝘀𝗶𝘀𝘁𝗼𝗻𝗼

che nessuno le ha mai viste. 

Che non sono vere.

Che non è vero che il locale era pieno di amici coi maglioni di lana, e non c'erano i musicisti col cravattino con le paillettes e non c'erano i piatti caldi e il vapore sulle vetrate, e non c'era il tango e non c'era il bolero, e non c'erano le voci al microfono sussurrate e poi soffiate e no, non c'erano neanche quelle mie parole screpolate. 

Ci sono serate che non esistono.

E io non le ho mai viste prima, se non quando qualche volta, ho chiuso gli occhi per immaginare il come, e il perché, di quello che voglio fare, che faccio, che mi ostino a fare.

Sono fatte così le serate che non esistono. 

Sono lì da sempre, a cantare tra le vetrate di un bar di periferia, e non lo sanno.

𝗤𝘂𝗲𝗹𝗹𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗽𝗶𝗻𝗴𝗼𝗻𝗼 𝗮𝗹 𝗯𝘂𝗳𝗳𝗲𝘁

𝗖𝗼𝗻𝗰𝗲𝗿𝘁𝗼-𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗮𝗰𝗼𝗹𝗼-𝗽𝗼𝗽-𝗱𝗿𝗮𝗺𝗺𝗮𝘁𝗶𝗰𝗼

In anteprima al Covo Bistrot

𝐍𝐨𝐧 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨 è 𝐧𝐨𝐦𝐢𝐧𝐚𝐛𝐢𝐥𝐞.

Ci sono cose, oggetti, spazi, sensazioni che sono stati inventati prima delle parole per descriverli.

Questa cosa che ci sia una parte di mondo non nominabile, o non ancora nominato, mi piace, mi conforta.

E' come se al nostro piccolo bisogno di incasellare, per sentirci più efficaci sul mondo, si contrapponga la tendenza della realtà a straripare, ad andare fuori dagli argini del nostro intelletto. 

C'è tutto un mondo che noi non controlliamo, ah che sollievo.

Il Teatro di Documenti è una di quelle cose che si impone alla vista e ai sensi, e esce fuori da quello che è possibile descrivere, incasellare, nominare. 

E' un pezzo di realtà appoggiato sul mondo, a cui è difficile dare un nome.

Sembra avere la fugacità e la consistenza dei fiocchi di neve, così reali e così impalpabili.

Sembra un luogo uscito un attimo dalla terra, pronto a tornare in chissà quale mondo sotterraneo.

Spesso mi capita di guardare gli occhi delle persone che lo vedono per la prima volta. C'è un istante in cui gli occhi si perdono, si spalancano, come quelli dei bambini, e poi tornano e dicono una frase che di solito ha dentro la parola "meraviglia".

Questo per dire che:

𝐈n 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐢 𝐨𝐬𝐩𝐢𝐭𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐈𝐌𝐏𝐄𝐑𝐃𝐈𝐁𝐈𝐋𝐄  𝐝𝐞𝐝𝐢𝐜𝐚𝐭𝐚 𝐚𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐢𝐝𝐞𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐋𝐮𝐜𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐃𝐚𝐦𝐢𝐚𝐧𝐢. 

𝐒𝐭𝐚𝐬𝐞𝐫𝐚 𝐨𝐫𝐞 𝟏𝟖

𝐞 𝐩𝐨𝐢 𝐢𝐥 𝟏𝟒-𝟏𝟓-𝟏𝟔-𝟏𝟕-𝟏𝟗 𝐝𝐢𝐜𝐞𝐦𝐛𝐫𝐞 

E che tutti i lunedì sera L'Atelier - Spazio Aperto di Ricerca Teatrale si tiene proprio qui, dentro un fiocco di neve.
La foto è di Francesco Lupò https://4treesphoto.net/home/bnw

Ottobre 2023

Il mercoledì pomeriggio ho il privilegio di portare il teatro dentro una scuola. Non devo mettere voti e non devo interrogare, e ho il tempo di fare un cerchio con loro e chiedergli come va, e ho anche il tempo di ascoltare le risposte. Una rarità.

Ieri ho istituito "Il giro del come mi sento" poche e semplici regole,  parla chi ha il palloncino rosso in mano e non vale dire "bene, male o normale".

Ho iniziato io, e poi ho passato il palloncino rosso a loro. È cambiato il suono della stanza, è cambiato lo sguardo, e gli angoli dei visi.

 V. Ha detto che quando si sente felice, sente la pancia vuota, perché piena di felicità. P. ha detto che la fanno arrabbiare le borracce al sapore di limone, perché sono di plastica e non servono a niente. G. Ha detto che è preoccupata per il suo criceto, che non si sente troppo bene. E poi M. Ha detto che quando è felice si sente come un puntino "qua" ,ha detto,  e ha indicato lo sterno con il dito. Un puntino giallo e brillante che vuole esplodere. E ieri ha detto che il puntino era lì.

Ho dato i compiti per casa " L' elenco delle cose che ti fanno felice", ci giocheremo la prossima volta, insieme ai palloncini rossi.

Mentre tornavo a casa, con il puntino giallo al centro del petto (che si sa il puntino giallo è contagioso) pensavo che vale la pena ricominciare da qui, da pochi minuti al giorno di educazione emozionale, vale la pena fare un esercizio in meno del programma, per allenarsi a toccare un palloncino senza scoppiarlo e provare a dare un nome e un colore a quello che si sente qui, al centro del petto.

Settembre 2023

E’ molta colpa di Perec. Se sono a Parigi.

George Perec, lo scrittore. E’ colpa sua. 

Ma lui non lo sa. Perché è morto. Nell’82. A Parigi. 

Dopo aver iniziato a scrivere la lista delle 50 cose da fare prima di morire, di cui però riuscirà a scriverne solo 37. 

George Perec mi conforta. 

E’ uno dei pochissimi che lo fa davvero. Gli scrittori di solito o mi affascinano, o mi trascinano, o mi fanno ridere, o mi fanno evadere.

George Perec invece mi conforta, un bel po'. 

Per il grado di libertà che si prende sulla pagina. E se la libertà è un muscolo che si allena, e una cosa che si suda e l’unico modo per allenarla è praticarla. Mentre leggo, immagino Perec che allena la sua libertà, che fa slalom con le parole, che fa il plank sugli stili, che saltella sulle immagini, e fa stretching con le idee. E questa immagine di un uomo che scrive e vive e suda la propria libertà, mi conforta parecchio. 

Quindi è colpa di Perec se sono a Parigi. Perché ne parla in quei libri, tutti scritti a modo suo. 

E’ colpa di Perec se Parigi molte volte mi toglie le parole, se mi si attaccano gli occhi sui murales, se le luci di San Michel sono diverse da quelle di Buttes Chaumont, se ho scoperto un teatro su un battello, se ho visto i parigini giocare a bocce il lunedì pomeriggio. 

E’ colpa di Perec se sono andata a teatro, a non capire le parole, e capire tutto il resto. Se mi addormento al sole di Parigi, se guardo la luna da un canocchiale su Avenue Bolivar, se attraverso il Canal Saint-Martin dal ponte più piccolo che sembra quello dei film, anche se devo fare un po’ di strada in più per arrivarci. 

E’ colpa di Perec se incontro viaggiatori, persone che si spostano, che si muovono, che non sanno bene dove vivono, che hanno lasciato qualcosa da qualche parte, e che ne fanno a meno, o almeno così sembra. 

E’ colpa di Perec se ora sono qui su Rue Manin con due zaini sulle spalle e una grossa valigia a fare un altro trasloco, non so se questa è libertà, ma sto sudando un bel po'.

Prendo il telefono e digito il nuovo indirizzo. 

Bene, solo 600 metri, 9 minuti, devo attraversare la strada e andare a destra. Devo prendere Rue des Dunes.

Giro la testa e vedo che Rue des Dunes, non è una semplice strada. Ma è una discesa. 

Una lunga strada in discesa. 

Grazie Perec! So che hai scritto qualcosa anche sulle discese, lo so, ma non mi viene in mente ora. 

Ora penso invece ad un’altra frase che dici da qualche parte. 

“Vivere è passare da uno spazio all’altro cercando il più possibile di non farsi troppo male” 

me lo ripeto come un mantra, mentre attraverso la strada con 40 kili di valigie addosso, e ringrazio quello in macchina che mi ha fatto passare. 

Guardo bene dove metto i piedi. 

“Cercando il più possibile di non farsi troppo male” penso che un giorno me la tatuerò sulle ginocchia, sbucciate dagli spostamenti, scorticate dalle rincorse e dai tuffi dagli scogli. 

Vado veloce sulla discesa, la valigia corre da sola, penso a quando si dice che le salite rendono più forti, che le cadute ci temprano, che gli urti ci fanno bene. 

Penso che questa narrazione masochista dello stare al mondo, vada rivista, come il mio modo di organizzarmi i bagagli ( faccio troppi zaini e poche valigie). 

Intanto passa un uomo che non sa dove consegnare un pacco e mi chiede qualcosa, ma io faccio di no non la testa, “Je-ne-sai-pas” mi viene bene il francese mentre corro. 

Penso che questa cosa del “se non ti uccide ti rende più forte” sia stata teorizzata da qualcuno molto potente e molto poco empatico.

Penso che se esistesse un mondo fatto di discese io non esisterei ad andarci a vivere

Penso che questa pedagogia nera del sacrificio e della ricompensa mi ricorda l’addestramento di alcuni cani da caccia. 

Penso che ora che la discesa è finita ed ho il fiatone, dovrò ricominciare a trascinare la mia valigia.

300 metri, dice il navigatore, a Belleville stanno facendo i lavori , c’è una grossa gru al centro della strada mi infilo tra il muro e il ponteggio, penso a come distribuirei il tatuaggio sulle mie ginocchia “Vivere è passare da uno spazio all’altro” sulla sinistra e poi il resto sulla destra. 

Penso alla prima volta che sono caduta dalla bici, alla crosta sulle ginocchia, e alla cicatrice che rimaneva più bianca quando mi abbronzavo. Cerco di ricordarmi se mi sono sentita davvero più forte dopo quella caduta oppure no. 

Sento che ho una bici alle spalle, ma la strada è troppo stretta per entrambi, mi faccio da parte faccio passare, il signore con gli occhiali, sembra stupito e felice, sorride, mi dice mercì e poi qualcosa che non capisco.

100 metri e poi una piccola salita per arrivare al portone.

Non credo che le mie ginocchia siano più resistenti dopo la caduta dalla bicicletta, no sono più doloranti, più delicate, se cado di nuovo sullo stesso punto farà più male. È successo, succederà di nuovo, ma non chiedetemi di esultare di gioia. No. 

Le cose che mi hanno reso le ginocchia più forti, e quindi più abili a viaggiare a passare da uno spazio all’altro e forse a esercitare un pezzo di libertà, sono state le cose in discesa. 

È stato il signore che a Londra quando avevo 20 anni e non c’erano i navigatori mi ha indicato dove era la metro. È stata la ragazza che in Brasile mi ha offerto di andare a vivere a casa sua. È stato quando in Polonia il mercante della piazza dei fiori mi ha regalato una gerbera rossa. 

È tutte le volte che qualcuno si è offerto di aiutarmi con le valigie, quando ne avevo troppe, e stavo iniziando una salita. 

Belle le discese. 

Penso mentre faccio tre piani di scale trascinando i miei bagagli mal organizzati. 

Belle le discese. Penso mentre faccio cadere tutto sul pavimento di legno, facendo un gran rumore. 

Belle le discese.

 Penso quando vedo che la ragazza che mi affitta casa mi ha lasciato una fetta di torta sul tavolo. 

E un messaggio " Please, help yourself" .

Che letteralmente sarebbe "Per favore, aiutati da solo."

 Invece vuol dire ”Prego, serviti pure”.

E se la libertà va allenata anche sulla pagina di diario, allora per me, oggi, questo messaggio vuol dire.

“Serviti pure.

Goditi la discesa.

Cerca il più possibile di non farti troppo male. 

E non tatuarti le ginocchia, per favore ” .

Nella foto : La torta di Annah

Settembre 2023

Si lo so, Parigi mi ha un po' rapita. Ho avuto poco tempo per scriverci su. Per starci a pensare insomma. 

Questi giorni in ogni caso:

mentre trasportavo la mia grossa valigia da una parte all’altra di Parigi

mentre facevo passeggiate sulla Senna

mentre cercavo un bar in cui mettermi a scrivere

e mentre  mi rifugiavo a Pret a Manger a caricare il telefono

mentre andavo a sgranare gli occhi davanti alle opere di 59 Rue de Rivoli

Mentre prendevo un grande acquazzone per andare al Pompidou di martedì per poi scoprire, che il Pompidou ha un giorno di chiusura ed è:  il martedì.

Mentre i miei vicini facevano un trasloco e piangevano davanti al camion pieno zeppo delle loro cose. E si abbracciavano, e se ne andavano, e lasciavano lì al centro del patio un grande vassoio pieno di pan au chocolat. 

Mentre provavo a pronunciare Pan au chocolat nelle Boulangerie, cercando di farmi capire senza dover ripeterlo due volte “ Un Pan e Chocolat, merci”.

Mentre compravo Madeleine in pasticceria solo per assaggiare di cosa parlava Proust,  nel suo “ tempo perduto”.

Mentre scoprivo il 104, un posto aperto e gratuito in cui gli artisti vanno ad allenarsi, a fare le prove, a creare, a danzare. 

Mentre scoprivo Les Amarres, un centro sociale Parigino, con una grande terrazza sulla Senna.

Mentre mangiavo Vietnamese, parlavo il portoghese, e balbettavo il francese. 

Mentre correvo nel parco vicino casa, che sembra la Thailandia, invece sei a Parigi. 

Mentre cercavo di togliere la patina del la Parigi" tutta Louvre e Torre Eiffel", mentre mi si scheggiavano le unghie. 

Ho pensato al tempo. 

Mi sembra che il tempo quando si viaggia cambi di consistenza. 

Il tempo a casa, nella quotidianità, mi sembra che il più delle volte scivoli dal lunedì alla domenica e mi ritrovo la domenica sera a fare i conti con le ultime gocce della settimana, che si è sciolta senza che ci abbia fatto caso, senza che abbia avuto un attimo per starci a pensare. 

Invece nel viaggio il tempo mi pare che si addensi, si inspessisca, questa viscosità del tempo è forse quello che cerchiamo nel viaggiare. 

Viaggiare è come portare il tempo al lunapark.

E il lunapark si sa,  è un modo per complicarsi la vita, invece di camminare sulla terra, al lunapark ti tolgono la terra sotto i piedi e tu cammini nel vuoto, invece di prendere un treno , al lunapark il treno è strettissimo, scomodissimo, va a 300 km orari, così il cuore pulsa più forte, e poi lo stesso treno ti mette a testa in giù, così per qualche secondo il tuo sangue non sa che giro fare e si perde tra le arterie. 

Potevi stare sul divano invece no, sei andato a farti addensare il tempo così puoi tornare a casa e dire "ho fatto un’esperienza”. 

Ecco, forse le esperienze, sono quelle cose che collezioniamo per evitare che la vita goccioli via, come il ghiacciolo al limone quando sei in spiaggia?

Quindi quando decidi di fare un viaggio è come se…

Come se vedessi il tuo tempo spiaggiato sul divano ( che il divano e il tempo a volte diventano la stessa cosa) e gli dicessi, dai andiamo a fare due salti, stai scorrendo troppo in fretta, goccioli per casa da troppi giorni. 

Quindi eccoci qui, io e il mio tempo a Parigi, io molto presa ad arginare per quanto possibile il suo inevitabile gocciolamento, lui, il mio tempo, perso tra gli ottovolanti e le montagne russe.

Sono seduta ad un tavolo tondo di Pret a Manger su Rue du Louvre, sono venuta a ricaricare qui il telefono, ci impiegherà tra i 20 e 25 minuti prima che si accenda di nuovo, ho una quiche davanti che dovrò mangiare in 25 minuti. Un eternità.

Sto pensando al tempo. 

Mi volto e al tavolo al di là della vetrata ci sono tre uomini con i capelli bianchi, parlano con una certa vivacità, li guardo ancora un pò, uno di loro ha un orologio stretto tra le labbra.

Do un primo morso alla mia quiche, formaggio e spinaci, la mastico lentamente, ho ancora 24 minuti, prima che il telefono si accenda.

Guardo di nuovo l’uomo con l’orologio in bocca, ne mordicchia il quadrante nero, ha gli occhi sorridenti e l'aria serena. 

Vorrei fare una foto, ma il telefono è scarico. Si accenderà tra 21 minuti.

Il mio tempo diventa della stessa consistenza di questa pasta sfoglia della quiche, stoppaccioso, macchinoso, lento. Per i tre uomini con i capelli bianchi, sembra invece, che il tempo si sciolga come il burro, di cui è impregnata questa stessa quiche. Hanno finito il loro sandwich e sorseggiano il caffè.

Penso ai ragazzi che piangevano davanti al camion dei traslochi. 

Non ho mai avuto tanto tempo per mangiare una quiche. La mastico lentamente.

Penso alle Madeleine di Proust, ho letto che quelle di cui parla nella recherche erano in realtà  biscotti secchi e non quelle barchette burrose che si trovano ora in pasticceria, sotto lo stesso nome. 

Nel frattempo la quiche è finita, e il mio telefono si accende. 

Voglio fare la foto al signore che mangia il tempo, la allegherò alla mia pagina di diario.

Mi volto.

Il tavolo è vuoto, lui e i suoi due amici sono gocciolati via, inesorabili.  

Prendo il telefono e faccio la foto al tavolo, la intitolerò:

SIAMO ANDATI AL LUNAPARK.